Fin da
quando andavamo a scuola, ci è stato insegnato che la lingua parlata e quella
scritta non sono proprio la stessa cosa.
Questo è vero, lo è in modo particolare per noi italiani. Non ce ne rendiamo conto ma è solo da pochi decenni che tutti gli abitanti della penisola parlano un unico idioma. Almeno ufficialmente.
In un passato non molto lontano si parlava un’innumerevole quantità di dialetti, ciascuno diverso, e la lingua italiana veniva usata davvero da pochi rappresentanti delle classi agiate e che avevano avuto modo di studiare.
Per lungo tempo si è scritto in italiano e parlato in dialetto, con la conseguenza che, nel comune sentire, si è fatta strada la convinzione che quando si scrive si sta mettendo in luce il lato colto di sé.
Ecco perché nel profondo di tutti noi, quando ci si mette a scrivere, si pensa che il proprio livello culturale venga a trovarsi sotto esame e quindi bisogna dimostrare di essere bravi: Come? Ahimè tantissimi cedono alla tentazione dell’uso del “parolone” il termine altisonante che dovrebbe farci fare bella figura.
Tentazione pericolosa. Fa dimenticare che la prima funzione della scrittura è comunicare, farsi capire da chi ci legge che, specie se scriviamo romanzi o altre pubblicazioni, è probabile che non ci conosca.
Ecco allora che si assiste all’uso di espressioni inappropriate e inadeguate che possono sembrare eleganti, in senso letterale lo sono, perché sono state scelte, ma hanno un significato diverso da quello che si vuol davvero dire.
Cosa molto frequente è che si dica “problematica” al posto di “problema”. Non è la stessa cosa.
La “problematica” è un insieme di problemi legati tra loro e che fanno riferimento a una situazione comune, ad esempio la problematica dell’emarginazione è l’insieme di problemi come: povertà, disoccupazione, scarsa istruzione, contesti familiari disfunzionali. Quindi meglio usare il “parolone” solo se serve davvero e preferire, per il resto, una scrittura chiara e semplice.
Eleonora Zaffino
Questo è vero, lo è in modo particolare per noi italiani. Non ce ne rendiamo conto ma è solo da pochi decenni che tutti gli abitanti della penisola parlano un unico idioma. Almeno ufficialmente.
In un passato non molto lontano si parlava un’innumerevole quantità di dialetti, ciascuno diverso, e la lingua italiana veniva usata davvero da pochi rappresentanti delle classi agiate e che avevano avuto modo di studiare.
Per lungo tempo si è scritto in italiano e parlato in dialetto, con la conseguenza che, nel comune sentire, si è fatta strada la convinzione che quando si scrive si sta mettendo in luce il lato colto di sé.
Ecco perché nel profondo di tutti noi, quando ci si mette a scrivere, si pensa che il proprio livello culturale venga a trovarsi sotto esame e quindi bisogna dimostrare di essere bravi: Come? Ahimè tantissimi cedono alla tentazione dell’uso del “parolone” il termine altisonante che dovrebbe farci fare bella figura.
Tentazione pericolosa. Fa dimenticare che la prima funzione della scrittura è comunicare, farsi capire da chi ci legge che, specie se scriviamo romanzi o altre pubblicazioni, è probabile che non ci conosca.
Ecco allora che si assiste all’uso di espressioni inappropriate e inadeguate che possono sembrare eleganti, in senso letterale lo sono, perché sono state scelte, ma hanno un significato diverso da quello che si vuol davvero dire.
Cosa molto frequente è che si dica “problematica” al posto di “problema”. Non è la stessa cosa.
La “problematica” è un insieme di problemi legati tra loro e che fanno riferimento a una situazione comune, ad esempio la problematica dell’emarginazione è l’insieme di problemi come: povertà, disoccupazione, scarsa istruzione, contesti familiari disfunzionali. Quindi meglio usare il “parolone” solo se serve davvero e preferire, per il resto, una scrittura chiara e semplice.
Eleonora Zaffino
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