"Questo romanzo è la naturale
integrazione e l'indispensabile complemento di Centomila gavette di
ghiaccio."
Così si legge sulla quarta di copertina, a mio parere, mai frase fu più giusta.
Il racconto inizia con la
"segregazione" che i reduci della ritirata di Russia furono costretti
a subire, una volta oltrepassato il confine del Brennero: campi di contumacia
per i sani e ospedali militari per i feriti e i congelati.
Al termine di ciò il rientro in servizio e la compagnia tredici, artiglieria
alpina, della divisione Julia si ritrova, fra veci e burbe in
Friuli.
Il tenente medico Italo Serri ritrova il
capitano Ugo Reitani, i conducenti di mulo Pilon e Scudrera, l'attendente Covre, il tenente Dell'Alpe, e
poi Zoffoli, Sorgato, i sergenti Bartolan e Fraita; coloro, cioè, che facevano
parte della precedente compagnia e dovranno insegnare alle reclute il
"mestiere del soldato", nel momento peggiore della seconda guerra
mondiale per i militari italiani, (forse nessuno lo aveva messo in conto): la
caduta di Mussolini con la conseguente modifica degli schieramenti.
"Chi combattiamo ora?" Si chiedono
gli alpini della Julia. Consapevoli di doversi difendere, a quel punto, anche
dagli ex alleati tedeschi oltre che dai partigiani jugoslavi del generale Tito
e dagli anglo-americani.
Nel romanzo si inserisce un personaggio che
all'apparenza non sembra legare con i nostri protagonisti: padre Bernhard
Haring. All'epoca aiutante di sanità (il governo di Hitler non ammetteva
cappellani militari) nella VI armata del generale Von Paulus a Stalingrado.
Bedeschi racconta che lo incontrò a una tavola
rotonda ad Assisi e la sua storia spinse l'autore a inserirlo nel romanzo.
Di notevole importanza, secondo me, è il tema
della vita del sopravvissuto; i continui ritorni al passato e ai nomi di coloro
che non ci sono più è, per certi versi, un leit-motiv della narrazione in cui
risalta il comportamento che l'esercito italiano tenne durante i mesi
dell'indecisione.